A luglio, un team formato da alpiniste, videomaker e ricercatori scientifici è tornato dopo 70 anni sul K2, per valutare l’impronta dell’uomo anche in questi luoghi apparentemente incontaminati.
Era il luglio del 1954 quando per la prima volta due alpinisti italiani, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, arrivarono sulle vette del K2.
A luglio di quest’anno, una nuova squadra ha ripercorso gli stessi passi di quei due alpinisti sul K2. Un’impresa, questa volta, non solo sportiva, ma anche scientifica. Nel team, infatti, erano presenti anche esperti scientifici, che hanno partecipato a questa missione per ricercare la presenza di inquinanti. Noi di Impronta Animale- APS abbiamo avuto il piacere di intervistare la professoressa Stefania Gorbi (conosciuta in un’altra intervista), del Dipartimento di Scienze della Vita e dell’Ambiente dell’Università Politecnica delle Marche e il Direttore dello stesso dipartimento, Francesco Regoli.
La professoressa Gorbi e il professor Regoli (qui a sinistra) ci raccontano la loro esperienza nella sua interezza: partendo dallo sviluppo del progetto fino alla missione sul campo.
Com’è nata la missione del K2
“È nato tutto all’improvviso” dice la professoressa Gorbi, “Per caso, in un fine settimana” aggiunge il professor Regoli.
Da un incontro con il Rettore e Massimiliano Ossini, che stava organizzando una missione commemorativa per i 70 anni dalla prima scalata alla vetta del K2, è nata l’idea di coinvolgere ricercatori che potessero realizzare uno studio sull’impatto antropico presente in quelle aree.
“In poche settimane si è passati da una chiacchierata nel weekend a cercare di organizzare pacchi, spedizioni e trasporto di materiale” continua il Direttore. Nel giro di un paio di mesi da quando si è presentata l’opportunità di partecipare alla missione, infatti, uno dei punti più importanti è stata l’organizzazione di materiali e strumentazioni. I due ricercatori, infatti, hanno cercato di pianificare le attività anticipando ogni imprevisto che un ambiente così peculiare può presentare. Il tutto organizzato in poche casse, per un totale di un metro cubo di volume. Un’ulteriore difficoltà è stata decidere a priori siti di campionamento in un territorio che i due professori universitari non conoscevano. La rapidità con cui si è dovuto svolgere il tutto, poi, ha creato difficoltà nella fase di disegno di campionamento aree e nella scelta delle matrici da campionare una volta arrivati in Pakistan.
Quella sul K2, però, non è stata una missione puramente scientifica e per questo ha visto coinvolti diversi “attori”, provenienti da realtà molto diverse
“Collaborare con loro è stato semplice”
“È stato molto appassionante e istruttivo”
Queste sono le parole dei due professori. Il team che ha partecipato alla missione era costituito da ricercatori, guide alpine, il noto presentatore Massimiliano Ossini, una troupe di videomaker, che hanno realizzato le riprese per il documentario (il quale andrà in onda a fine anno su RAI), e guide locali che hanno fornito tutto il supporto necessario per muoversi e lavorare senza problemi. “Tutte persone esperte nel loro ambito” affermano Gorbi e Regoli.
Quella sul K2, però, non era una missione che richiedeva solo competenza professionale. Quando si affrontano sfide come queste, infatti, è molto importante lo spirito di adattamento, per essere pronti ad ogni imprevisto con uno spirito di condivisione. Ciò che il Direttore sottolinea, appunto, è come sia stato importante il lavoro di squadra; l’avere a mente i propri obiettivi ma anche il saperli inserire in un quadro più generale, confrontandosi costantemente con le esigenze altrui.
L’obiettivo della ricerca scientifica
Come dicevamo all’inizio, la spedizione oltre al valore commemorativo ha abbracciato anche scienza e ricerca, che ha visto la partecipazione non solo del team di UNIVPM ma anche di altre Università (Università di Padova e Milano Statale) e del CNR.
In particolare, l’UNIVPM ha selezionato una serie di siti lungo il percorso che da Skardu porta ad Askoli a 3000m di altitudine. Si tratta dell’ultimo avamposto raggiungibile con mezzi, prima di partire per il percorso di trekking e poi per la scalata verso la vetta del K2.
L’obiettivo era quello di ottenere per la prima volta un’indicazione sulla presenza e tipologia di inquinanti emergenti nell’area del Karakoram. Sappiamo, infatti, che esistono contaminanti a distribuzione globale, persistenti, che vengono rilasciati in atmosfera e vengono trasportati fino a raggiungere aree anche molto lontane dai siti di produzione. In questo viaggio tendono ad essere intrappolati nelle aree fredde come le aree montuose. Quindi, un’area remota e priva di installazioni industriali non è esente da questo rischio. “L’ipotesi – ci spiegano i professori – era quella di verificare come cambia l’impronta dell’uomo a partire da siti privi di insediamenti umani, remoti (come ad esempio il ghiacciaio del K2) spostandosi poi verso aree agricole fino a zone più antropizzate, come insediamenti umani e cittadine più grandi”
La base di tutto: il campionamento
“Siamo riusciti a campionare più di quanto ci aspettassimo!” Così esordisce la professoressa Gorbi alla nostra domanda “Cosa avete prelevato?”. Perché come ci hanno raccontato all’inizio di questa intervista: la difficoltà di decidere cosa e dove campionare in un ambiente di cui si sa ben poco è tanta.
Il supporto delle guide locali, però, ha permesso ai ricercatori di campionare matrici abiotiche, come acqua, sedimento e suolo dai campi, e biotiche, come i pesci (trote). I siti di prelievo sono stati soprattutto lungo i fiumi Shigar e Braldu e il lago Satpara.
Come mai proprio queste matrici? Scopriamolo insieme!
Partendo dall’acqua, questa è un’ottima matrice d’analisi perché può raccogliere tutti i potenziali inquinanti provenienti dalle attività antropiche. I sedimenti, invece, possono rappresentare delle matrici di accumulo e quindi darci delle indicazioni temporalmente più integrate. Infine, i pesci permettono di capire il trasferimento degli inquinanti al comparto biotico e studiarne gli effetti.
Oggetto delle analisi in laboratorio sono tutte quelle sostanze che noi oggi sappiamo essere legate alle attività umane, ma che molto spesso non vengono adeguatamente monitorate. Tra queste sostanze ricordiamo i contaminanti organici persistenti, come gli organoalogenati, sostanze provenienti da attività agricole, come i pesticidi, contaminanti tradizionali ed emergenti, come farmaci e PFAS. “E plastiche e microplastiche – aggiunge infine Regoli – soprattutto in seguito a quello che abbiamo osservato”
“L’impronta dell’uomo” arriva ovunque, ma anche sul K2?
“Non avevamo delle grandi aspettative – dice Francesco Regoli – Obiettivamente andavamo in un territorio in cui non avevamo molti dati in partenza”.
I due ricercatori raccontano come in certi villaggi e insediamenti fossero palesi le difficoltà logistiche nell’organizzare catene di trasporto e gestione di rifiuto che anche da noi richiedono anni di messe a punto. Quindi, l’aspetto visibile agli occhi si riferiva principalmente alla cattiva gestione dei rifiuti, soprattutto della plastica. E a questo proposito, il professor Regoli ci racconta: “Ricordo in particolare che in un sentiero del K2, attraversando dei rivoli d’acqua, c’erano grandi accumuli di buste di plastica monouso proveniente da confezioni di shampoo e bagnoschiuma da campo”.
L’impronta dell’uomo, dunque, è decisamente ben visibile in questi luoghi, anche nelle parti più remote.
Lo scopo della missione, però, ricordano, era soprattutto quello di investigare su quella parte di impatto antropico non visibile a occhio nudo: sostanze potenzialmente tossiche presenti nelle matrici che hanno raccolto e che solo le sofisticate analisi chimiche potranno accertarne l’eventuale presenza. Per questa parte del lavoro bisognerà attendere qualche mese, perché alcune di queste analisi richiedono tempi più lunghi.
Il Pakistan, non solo da un punto di vista scientifico, ma anche sociale. Quali difficoltà hanno dovuto affrontare i due ricercatori?
“Difficoltà vere e proprie no – dice il Direttore – situazioni particolari ed impegnative, però, sì. Da diversi punti di vista. A partire dalle condizioni igienico-sanitarie, soprattutto nei pressi di Askoli, dove bisogna fare attenzione anche alla stessa acqua con cui ci si lava i denti” .
Aggiunge “Ovviamente ci siamo confrontati anche con una sensibilità e una cultura molto diverse dalle nostre”.
Il Pakistan è indubbiamente un Paese culturalmente molto diverso dal nostro. Sul territorio i ricercatori sono stati costantemente seguiti da guide locali dando loro la possibilità di muoversi e spostarsi anche nei villaggi più remoti. In generale, raccontano i professori, le persone del luogo hanno mostrato curiosità nel vedere ricercatori interessati a realizzare degli studi sui loro territori e molta disponibilità non solo nell’accoglienza ma anche nell’aiutare a realizzare l’attività di ricerca, anche se in alcuni casi è stato difficile far comprendere il perché di certe richieste specifiche.
“Dopo i primi giorni in cui abbiamo dovuto comprendere alcune piccole “regole” e usanze locali, abbiamo saputo adattarci e in generale non ci sono stati problemi” afferma la professoressa Gorbi.
“La cultura islamica, ovviamente, è molto diversa dalla nostra – aggiunge il professor Regoli – ma tutto il percorso, sia noi che loro, lo abbiamo vissuto cercando anche di capirci nel rispetto delle reciproche differenze. Questo l’ho trovato un grande arricchimento culturale, anche perché spesso queste differenze si tende a leggerle sui libri, ma non a viverle in prima persona”
Arrivati, dunque, alla fine di questa avventura, abbiamo chiesto ai due professori: “Com’è stato vivere questa esperienza? La missione K2 sarà la prima di una lunga serie?”
“Ovviamente vivere un’esperienza come questa arricchisce tantissimo dal punto di vista personale, perché si ha la possibilità di vedere luoghi unici e di incontrare popoli culturalmente molto diversi. La fatica fisica e mentale viene quindi ripagata dalla bellezza dei luoghi e dalla peculiarità delle esperienze vissute, che arricchiscono il bagaglio culturale ed emotivo di ogni persona”.
Queste le parole della professoressa Gorbi, a cui il professor Regoli aggiunge: “Nel complesso è stata un’impresa impegnativa e faticosa, ma assolutamente entusiasmante. Bilancio totalmente in positivo sia per quelli che potranno essere i risultati che otterremo, sia e soprattutto per aver avuto la possibilità di essere entrati in un mondo, in una cultura, completamente diversi. Per aver visto paesaggi straordinari, dove ci rendiamo conto di quanto sia importante non solo approfondire le conoscenze per caratterizzare meglio l’eventuale presenza di inquinanti, ma quanto sia importante e fondamentale stabilire delle collaborazioni per portare in questi Paesi nuove forme di sensibilità, di consapevolezza e possibili soluzioni e idee di sviluppo”.
I ricercatori hanno un ruolo importante in questo tipo di iniziative, hanno infatti la responsabilità di diffondere le conoscenze basate sulle indagini rigorose, evidenze scientifiche che siano oggettive e che devono essere il punto di partenza per la gestione/soluzione di una problematica ambientale.
Ad oggi sappiamo che esistono tecnologie capaci di affrontare tante delle problematiche di impatto antropico che abbiamo visto essere presenti in quei territori: tecnologie per l’analisi e il trattamento delle acque, tecnologie su cui in Università, dicono i ricercatori, abbiamo tanta esperienza e che sarebbe bello condividere per capire la possibilità concreta di applicarle in quei posti.
“Abbiamo già sottoscritto un accordo tra UNIVPM e Ev-K2-CNR, associazione che opera sul territorio già da diversi anni con progetti di cooperazione. In questi giorni, inoltre, stiamo tornando in Pakistan per attivare una serie di iniziative che porteranno a implementazioni di laboratori per controllo di acque, di fitopatologia e di zoo-profilassi. In aggiunta, si stanno attivando una serie di training per studenti e popolazioni locali per la divulgazione delle conoscenze, e tanto altro.
Lo scopo di tutto questo è anche quello di trovare un punto di incontro tra le necessità delle popolazioni locali e la conservazione della natura. Il parco deve avere delle regole che tuttavia non devono essere troppo restrittive per le popolazioni locali: bisogna trovare il giusto bilanciamento e compromesso tra i bisogni delle persone e i bisogni del parco”
Queste sono le parole conclusive dei due professori, ma che sanciscono l’inizio di nuove collaborazioni e lo sviluppo di nuovi orizzonti.