Oggi parleremo del documentario “Planet Ocean” realizzato da Yann Arthus-Bertrand e Michael Pitiot nel 2012. Ho sentito parlare di questo docufilm solamente quest’anno, in occasione della mostra “Pianeta Mare” che ho avuto modo di visitare lo scorso marzo. Incuriosita ho deciso, quindi, di vedere il documentario…
Planet Ocean e l’origine della vita
“Planet Ocean” racconta l’oceano come protagonista di una fiaba scritta da Bertrand, per svelare i segreti del mondo sommerso ancora in gran parte inesplorato.
Il viaggio inizia miliardi di anni fa, quando su un pianeta dominato da fuoco e vulcani, grazie ad un perfetto equilibrio tra biologia, chimica e geologia, ebbe inizio la formazione dell’oceano primordiale.
Attraverso immagini stupefacenti, il film guida lo spettatore alla scoperta del pianeta blu. Dalle regioni più estreme e meno conosciute della Terra si nuota fino alle massime profondità oceaniche. Scopriamo così che l’intera vita marina, dal più piccolo pesce fino al più temibile predatore, dipende da microrganismi invisibili. Questi sono zoo- e fitoplankton, batteri e virus, spesso ritenuti insignificanti. In realtà, essi rappresentano l’origine della vita sul nostro Pianeta. Grazie a loro, infatti, il mare produce il 50% dell’aria che respiriamo e assorbe il 30% della CO2 presente nella nostra atmosfera. Infatti, per questo motivo viene definito a tutti gli effetti il polmone blu del nostro pianeta.
In “Planet Ocean” gradualmente lo spettatore diventa un esploratore del mondo sommerso e un testimone delle sue meraviglie nascoste. Dalle zone polari che rappresentano l’ultima traccia delle ere glaciali, egli viaggia fino alle barriere coralline. Quest’ultime occupano solo lo 0,1% del fondale oceanico, ma ospitano il 25% di tutte le specie marine del nostro Pianeta. Al contrario, gli abissi costituiscono più del 90% degli ecosistemi marini. Eppure, l’assenza di luce, le basse temperature, le alte pressioni, la scarsità di nutrienti e di ossigeno rendono i deepsea ambienti inospitali e ancora poco conosciuti. Solo organismi con particolari adattamenti possono sopravvivere in un mondo primordiale, quasi al limite della vita.
È proprio questo perfetto equilibrio che ha permesso la nascita e lo sviluppo delle forme di vita, partendo da semplici (micro)organismi presenti nell’antico brodo, miliardi di anni fa.
Planet Ocean e l’indissolubile legame con l’uomo
Questo fragile equilibrio dettato dalla natura che non tollera eccessi, è messo a rischio dall’uomo. Non a caso la seconda parte di “Planet Ocean” è incentrata sul “legame fondamentale e ambivalente tra mare e uomo, poiché è allo stesso tempo causa e soluzione di tutti i problemi”.
L’uomo viene dall’oceano e dipende da esso. Attualmente più di 3 miliardi di persone sfruttano le risorse marine. Ciò avviene non solo per via della pesca ma anche per il turismo e per l’utilizzo dell’energia e di materie prime innovative. Sebbene sia indissolubilmente legato al mare, invece che utilizzare le sue risorse rispettando l’equilibrio naturale, l’uomo è diventato predatore e ha deciso di appropriarsi del pianeta blu. “Non esiste più un solo angolo degli oceani che non sia segnato dalla nostra specie” afferma Bertrand, descrivendo, uno dopo l’altro, i problemi che l’uomo ha causato all’oceano: pesca intensiva (overfishing), inquinamento, perdita di specie e di habitat, cambiamento climatico.
Particolare attenzione è riposta nella pesca, che da tradizione familiare è diventata un’industria su cui investire. Nell’ultimo secolo, infatti, le catture sono cresciute velocemente per poter soddisfare una domanda sempre più alta.
Ogni anno peschiamo globalmente 19 milioni tonnellate di pesce. Solo una parte del pescato viene però venduta, mentre gran parte è considerata scarto e ributtata in mare. A causa della scarsa selettività delle tecniche impiegate (es. pesca a strascico, le cui reti possono essere lunghe diversi Km), le reti raccolgono tutto ciò che finisce al loro interno, che sia specie commerciabile o meno. Ad oggi, la domanda delle risorse ittiche imposta dal mercato globale determina il superamento dei normali limiti biologici delle specie. Più dell’80% degli stock sono sovrasfruttati (overfishing) o in forte deplezione a livello globale. Specie come il merluzzo nordico (Gadus morhua), l’acciuga del Pacifico (Engraulis ringens), la sardina (Sardina pilchardus), il pesce spada (Xiphias gladius) e il tonno rosso (Thunnus thynnus) vengono pescati così intensamente da non riuscire più a rigenerarsi secondo i loro ritmi naturali.
Non trovando più risorse disponibili, le flotte si spingono sempre più in profondità o sempre più lontano dalle coste, fino agli high-seas, le terre di nessuno, dove la pesca non è soggetta ad alcuna regolamentazione e quindi le risorse sono ancora più in pericolo.
Possiamo ancora salvare il pianeta oceano?
In meno di 200 anni l’uomo è riuscito a colonizzare e sfruttare la ricchezza naturalistica sviluppatasi in 4 miliardi di anni, con conseguenze severe su tutta la vita marina.
L’industrializzazione e la globalizzazione stanno distruggendo il pianeta blu. Nelle regioni polari i ghiacciai hanno iniziato a sciogliersi a causa del climate change. L’inquinamento sta diventando una minaccia sempre più rilevante per gli habitat e le specie marine. Gli stock ittici vengono sfruttati così intensamente da non riuscire più a rigenerarsi secondo i loro ritmi biologici naturali. E ancora, i cambiamenti climatici stanno modificando l’ecologia dell’oceano, favorendo l’espandersi di specie aliene (Greta e Valentina ne hanno parlato in questo articolo e in questa intervista al Dr. Francesco Tiralongo) e la scomparsa di altre, come i coralli (ne ha parlato qui Alessia Carradorini).
“Pensavamo che il mare fosse infinito, ma in realtà ha dei limiti che sono stati rispettati per milioni di anni, creando un perfetto equilibrio tra specie e oceano. Ma l’uomo è riuscito a distruggere ciò che era buono solo perché non apparteneva a nessuno e perché fonte di ricchezza economica. Ma domani cosa ci rimarrà? Ad oggi, 400 aree marine sono state dichiate morte “death zone”, prive di risorse o incapaci di supportare la vita marina. Inquinare in questo modo il mare significa avvelenare noi stessi, in definitiva” afferma Bertrand.
Il fotografo, però, lascia una finestra aperta sulla possibilità di rimediare: “voglio credere che saremo in grado di cambiare e reagire prima che sia troppo tardi”. Indica poi possibili soluzioni che possono essere applicate da ognuno di noi per fare la differenza nel nostro piccolo. Con questo documentario, gli autori vogliono cambiare il modo di vedere e di pensare del pubblico, spiegando con semplicità il mistero e la ricchezza del nostro Pianeta, attraverso le esperienze umane più meravigliose e più terribili del nostro tempo.
“We can react in time! We have time to save our ocean planet!”
Federica Mongera